Eco di mani amiche. La materia diventa dialogo e incontro

Eco di mani amiche. Quando la materia diventa dialogo, memoria e incontro. Un dono si trasforma in un percorso creativo

Tutto è cominciato con un dono. Un gesto semplice, apparentemente quotidiano, ma capace di racchiudere una potenza poetica inaspettata. Virginia Franceschi, collega e amica, mi ha affidato il tessuto di un vecchio cuscino ricamato, un oggetto che aveva già esaurito la propria funzione, destinato a essere buttato.

Per molti sarebbe stato solo un frammento di stoffa, ma io l’ho percepito da subito come un custode silenzioso di storie: storie di mani, di ricami pazienti, di gesti antichi che si stavano perdendo nel tempo. Quel tessuto portava con sé l’eco di un mondo intimo e familiare, la traccia invisibile di chi lo aveva toccato, cucito, amato.

L’ho guardato a lungo, l’ho accarezzato, cercando di ascoltare ciò che aveva da raccontare. E in quel momento ho compreso che quel cuscino non era solo un oggetto, ma una soglia: un punto di passaggio tra la memoria e il presente, tra ciò che si consuma e ciò che può rinascere attraverso l’arte.

Da lì è iniziata una nuova fase del mio percorso artistico, un cammino che si è nutrito di ascolto, di sperimentazione e di dialogo. Quel gesto gentile, quel dono inatteso, è diventato la scintilla che ha acceso una ricerca più profonda sulla materia e sul suo potenziale narrativo. 

L’anima delle cose

Fin dai miei primi passi nella calcografia, ho sempre cercato di catturare l’anima nascosta degli oggetti. Non mi è mai interessato rappresentare la realtà in modo descrittivo, ma dare voce alla materia, lasciare che fossero le cose stesse a parlare, a rivelarsi.

Nei primi anni Novanta, quando lavoravo alle opere materiche, inserivo piccoli oggetti nelle mie composizioni — chiavi, conchiglie, bottoni, cortecce — non come semplici elementi decorativi, ma come frammenti di vita. Ogni oggetto era una presenza viva, una memoria che chiedeva di essere accolta.

La materia, allora, non era solo supporto, ma linguaggio. Cercavo nella texture, nella superficie, nella sostanza stessa delle cose, quel dialogo segreto tra visibile e invisibile. Ero attratta dall’idea che ogni elemento potesse custodire un’esperienza, una traccia emotiva, un legame invisibile con la vita di chi lo aveva posseduto o creato. 

Dalla calcografia al monoprint: una nuova libertà

Negli anni Duemila, quando la calcografia ha iniziato ad affascinarmi in modo più intenso, ho avvertito il bisogno di esplorare nuove direzioni. Le mie stampe calcografiche si sono arricchite di frammenti di tessuto, di indumenti, di oggetti personali. Sono apparsi sulle lastre il primo reggiseno di mia figlia, una cravatta di mio marito, pezzi di tessuti familiari — elementi intimi, colmi di vissuto.

Ogni fibra, ogni trama, sembrava pulsare di emozione. Non si trattava solo di imprimere un segno sulla carta, ma di lasciare che la vita reale, con la sua densità e la sua fragilità, entrasse nell’opera e la trasformasse.

È in quel periodo che ho iniziato a sentire la calcografia come uno strumento di trasfigurazione poetica, un ponte tra la memoria e la creazione contemporanea. Quando poi mi sono avvicinata alla tecnica del monoprint, tutto è diventato ancora più fluido: la possibilità di realizzare una stampa unica, irripetibile, mi ha permesso di vivere il processo creativo come un dialogo continuo con la materia.

L’incontro con Virginia Franceschi

L’incontro con Virginia Franceschi è avvenuto in un momento in cui la mia ricerca aveva già intrapreso questa direzione. Da tempo seguivo il suo lavoro con curiosità e ammirazione: nei suoi tessuti intrecciati, nei fili che si incontrano e si separano, riconoscevo una sensibilità affine alla mia.

Virginia lavora con la pazienza e l’intensità di chi sa ascoltare i materiali. Le sue opere parlano di tempo, di cura, di memoria. C’è nei suoi gesti un rispetto profondo per la materia, per la manualità, per ciò che è imperfetto ma vero. Ogni filo, ogni intreccio sembra contenere un respiro, un ritmo antico, una storia che si rinnova.

Quando ci siamo conosciute, abbiamo subito avvertito una sintonia speciale. Le nostre conversazioni si muovevano naturalmente tra arte, vita e memoria. Abbiamo scoperto di condividere lo stesso desiderio: dare nuova voce a ciò che è fragile, dimenticato, apparentemente inutile, restituendo dignità alla materia e senso al gesto creativo.

Il dono come atto generativo

Quel giorno, quando Virginia mi ha consegnato il tessuto del suo vecchio cuscino, non immaginavo che sarebbe diventato il simbolo di un’intera nuova fase della mia ricerca. Ricordo perfettamente quel momento. Il tessuto era consumato, i ricami lievemente sfilacciati, ma ancora bellissimi.

Virginia me lo ha dato con naturalezza, come si regala qualcosa che ha fatto parte della propria vita ma che ormai non serve più. Io l’ho accolto con gratitudine e curiosità, ma anche con un senso di responsabilità.

Dentro di me sentivo che quel dono portava con sé una storia da preservare, una memoria collettiva di gesti e mani femminili, di lavoro silenzioso e di cura.

In quell’oggetto c’era qualcosa che mi chiamava: il bisogno di dare nuova vita a ciò che stava per scomparire. E così ho iniziato a lavorare attorno a quel frammento di tessuto, a integrarlo nella mia pratica calcografica, a esplorarne le potenzialità espressive.

Ho capito che il “dono” non era solo un oggetto, ma un atto generativo. Un passaggio di testimone, un modo di condividere un’eredità invisibile. Nel momento in cui Virginia ha scelto di affidarmelo, è nata una connessione profonda tra le nostre ricerche. Quel cuscino, in qualche modo, ha tessuto un legame tra noi. 

Una nuova via nella ricerca

Lavorare con quel tessuto mi ha portata a rivedere il mio rapporto con la calcografia. Ho sentito il bisogno di abbandonare l’idea del multiplo, della ripetizione, per abbracciare invece la singolarità, l’unicità irripetibile di ogni stampa.

Il torchio, da strumento tecnico, è diventato un compagno di esplorazione. Ogni passaggio, ogni pressione, ogni variazione nella materia produceva risultati inattesi, spesso poetici.

Ho iniziato a integrare nelle mie opere non solo stoffe, ma anche ricami, trame, reti, materiali di recupero. Li ho accolti come presenze da ascoltare, elementi che portano con sé la memoria del tempo. Ogni tessuto ha un linguaggio proprio, un ritmo, una voce che si rivela solo quando la si accoglie con attenzione.

In questa fase ho sentito di non poter più considerare la tecnica come un limite, ma come un campo aperto di possibilità. Le regole stesse della calcografia diventavano flessibili, strumenti per un linguaggio personale e in continua evoluzione.

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