Memoria, materia e metacrilato: un’impronta che diventa scultura e luce, rivela segni, pieghe e ombre come una presenza
Il metacrilato: leggere la memoria attraverso la trasparenza
Quando ho iniziato a lavorare al ciclo delle Epoche, sentivo la necessità di spingermi oltre la semplice evocazione del passato. Non mi bastava raccontarlo: volevo toccarlo, lasciarlo emergere in superficie, permettergli di imprimersi nella materia. Per questo, accanto ai coprifasce – che rappresentano l’assenza eterea, la Prima Luce, la sagoma che resta quando il corpo non c’è più – è nata una nuova fase del mio lavoro, dedicata a un materiale che ha cambiato radicalmente la percezione della memoria: il metacrilato.
Il metacrilato mi ha permesso di esplorare un territorio diverso, più netto, più esposto, più vulnerabile. Ho scelto di abbandonare la resina epossidica perché desideravo una trasparenza più rigorosa, una qualità ottica capace di restituire ogni dettaglio senza mediazioni. È un materiale che non si limita a fissare una forma: la trattiene, la blocca, la cristallizza. Le sculture nate da questo processo sono calchi di abiti degli anni Quaranta e Cinquanta, e portano con sé l’impronta di chi li ha indossati, custodendo pieghe, trame, consumi, piccoli segni lasciati dal tempo.
A differenza dei coprifasce, dove prevale l’idea dell’assenza, qui la memoria diventa presenza assoluta: non un’ombra, non un vestigio, ma una traccia nitida. Il materiale trasparente, invece di cancellare la storia dell’oggetto, la amplifica. Ogni piega diventa un rilievo, ogni cucitura un’incisione, ogni usura una mappa. In questi abiti che non esistono più, il metacrilato funziona come un archivio, una sorta di lastra archeologica che trattiene tutto ciò che il tempo potrebbe cancellare.
L’interazione con la luce è la chiave che rende vive queste opere. Non le percepisco mai come forme statiche: reagiscono all’ambiente, cambiano nello spazio, modificano la loro natura in base al modo in cui la luce le attraversa o si riflette sulla loro superficie. Quando un’illuminazione mirata proietta un’ombra sul muro, come in Leggere segni, quell’ombra diventa parte integrante della scultura. È un corpo che riaffiora, un profilo che non c’è più ma che la trasparenza del materiale restituisce in forma nuova.
La luce, in questo percorso, è un agente rivelatore. È lei che svela, evidenzia, illumina ciò che il metacrilato trattiene. È lei che riporta alla superficie i rilievi lasciati dal vestito, che dà profondità alle pieghe, che rende visibile l’impronta di un’epoca. L’ombra proiettata non è un semplice effetto ottico: è una presenza temporanea, un fantasma consapevole, l’immagine residuale di un corpo che ha vissuto, camminato, attraversato il tempo.
In alcune opere, come Illumino il nero, ho scelto di intervenire con il colore. Il nero, nella trasparenza del metacrilato, non rappresenta mai un’oscurità chiusa: è un’energia che si espande, un’emozione che prende forma. L’inchiostro aggiunge un elemento pittorico al linguaggio scultoreo e crea un dialogo diretto con le carte marmorizzate della serie La Prima Acqua. C’è un rapporto intimo tra queste superfici: entrambe trattengono tracce, entrambe interpretano il gesto, entrambe raccontano il passaggio.
Il colore, inserito nel vuoto del vestito, funziona come una voce che emerge da dentro la forma. Non copre, non nasconde: accentua, intensifica, raccoglie l’eredità dell’abito e la trasforma in una presenza contemporanea. Il metacrilato, attraversato dalla luce, reagisce al colore come se la memoria stessa prendesse vibrazione, come se il passato trovasse un mezzo per parlarmi ancora.
L’intero percorso nasce dalla volontà di “leggere i segni”. È questo il centro della mia ricerca: capire come la materia possa conservare delle tracce e come queste tracce possano essere restituite allo sguardo. Il tempo non è mai qualcosa che si perde completamente; lascia sempre un segno da interpretare. Queste sculture nascono proprio da questa consapevolezza: la memoria non svanisce, cambia forma. E quando un materiale la trattiene, quando la luce la rivela, ciò che era invisibile diventa nuovamente accessibile.
La trasparenza, nel mio lavoro, non è mai sinonimo di vuoto. È, al contrario, una condizione piena. Piena di relazioni, di passaggi, di impronte. Piena di presenze che cercano il modo di riaffiorare. I vestiti degli anni Quaranta e Cinquanta non sono più indossati, non appartengono più a un corpo, ma sopravvivono tramite ciò che hanno trattenuto negli anni: la memoria di chi li ha abitati, la storia della loro stessa materia.
Il metacrilato diventa così un luogo di conservazione ma anche di trasformazione: offre un nuovo modo di guardare a ciò che resta. Quando la luce lo attraversa, le sue superfici si moltiplicano, proiettano linee, creano intersezioni, trasformano gli oggetti in apparizioni. Le sculture sembrano assumere un tempo duale: quello della memoria e quello dell’istante in cui la luce le rende vive.
Ogni opera è il risultato di un processo lento, che richiede attenzione, ascolto e precisione. Il calco dell’abito non è mai un gesto passivo: è un incontro. È un modo per avvicinarmi a un oggetto che porta con sé una storia e darle una nuova possibilità di essere letta. Ciò che era fragile, consumato, vulnerabile, diventa solido e trasparente. Ciò che apparteneva a un’epoca lontana diventa una presenza attuale, una testimonianza rinnovata.
Continuo a percepire questo ciclo come un ampliamento della mia indagine sulle Epoche: un passaggio dal tema dell’assenza alla percezione della traccia, dalla leggerezza dell’immateriale alla chiarezza della forma. Il metacrilato mi ha offerto uno strumento per fare affiorare il tempo e per mostrarlo nella sua complessità. Non è un materiale neutro: possiede una forza visiva che trasforma ogni dettaglio in un elemento da osservare, studiare, comprendere.
Queste opere non parlano solo di abiti: parlano di vite che hanno attraversato il tempo, di gesti ripetuti, di pieghe formate nel quotidiano, di memorie che non si dissolvono. Il metacrilato permette loro di sopravvivere sotto una nuova luce, letteralmente e metaforicamente.
E ogni volta che un’ombra si proietta su un muro, ogni volta che un colore si espande nella trasparenza, ogni volta che una piega emerge come rilievo, sento che ciò che è passato non è veramente finito. Continua a parlare, a trasformarsi, a cercare un modo per essere visto ancora.