Dove l'andar mio

Dove l'andar mio

L'arte come fertile terreno di incontro e di reciproca comunicazione fra generazioni.

Mondi solo apparentemente lontani, liberati da ogni preconcetto, convergono in sintonia su di un unico progetto culturale.

Dissonanti consonanze tele di grande formato e fogli incisi a quattro mani, presentano in immagini la poesia di un giovanissimo poeta, Giulio Zalvisi.

                                                                                                                                                                             Sara Montani e Fausta Dossi

 

Tre generazioni.

Due linguaggi.

Un cammino a sei mani.

Poesia e arte si incontrano. O forse no!

Di certo il poeta scrive,

il pittore accoglie la provocazione

e decide di lavorare

nell'ascolto e nell'incontro con l'altro.

Ognuno è se stesso e non rinuncia alla propria emozione e al proprio grido.

Raccolta la sfida intrigante è "come?"

 

NECROPOLI II

Chi può respira

in silenzio, senza farsi sentire

Giulio Zalvisi

 

Le "DISsonanti CONSONANZE" di Fausta Dossi e Sara Montani

E' frequente sentir parlare - o leggere - di conflitti generazionali: meno consueto è il caso d'una sintonia tra generazioni, d'imbattersi cioè in testimonianze d'un loro fattivo con-sentire.  Questa mostra ne è un esempio. Nasce da un giovanissimo poeta (che tuttavia mostra di possedere la saggezza che un tempo era prerogativa conclamata degli anziani) e da due artiste, in età matura l'una, nell'età di mezzo l'altra, che entrambe hanno conservato fresche capacità di stupore e d'entusiasmo precipue della fanciullezza. Una situazione, quindi, felicemente anomala e proficua, produttiva di stimoli reciproci e di rare occasioni di collaborazione. In particolare nel senso chele due artiste hanno lavorato insieme, per il piacere di fare, senza condizionamenti vicendevoli, e senza venir sfiorate dalla tentazione di prevaricare: talvolta all'unisono, tal altra rispecchiandosi in un confronto che sottolinea punti di contatto e differenze (consonanze e dissonanze, appunto).

L'idea della mostra (che dovrebbe venir riproposta in più sedi, con le varianti nell'estensione e nell'allestimento che i diversi spazi espositivi suggeriranno) è nata  da una luminosa scheggia poetica di Giulio Zalvisi, dal titolo "Necropoli II": "Chi può respira / in silenzio senza farsi sentire". Ciascuna parola di questa sorta di haiku è stata fissata su una lastra combinando variamente differenti tecniche incisorie, stampata su più fogli con sensibili variazioni d'inchiostratura - e quindi di risultati, diversi come diverse sono le personalità degli osservatori che possono scegliere in quale prova riconoscersi - e disposta iterata.

Le sedi espositive suggeriranno la distribuzione spaziale dei fogli, tra la proposta di poesia visiva e l'installazione.

A variazioni di percorso corrispondono letture diverse; costante è comunque l'idea di un tragitto compiuto tra i cippi d'una necropoli. Cinque "scatole nere" evocano personaggi di generazioni passate: vecchie lastre fotografiche in vetro sono raggruppate per affinità di soggetto in pannelli neri illuminati dall'interno: compaiono lontane immagini di vita, come sindoni di chi è stato, e il cui respiro (non) possiamo ora avvertire. Appese alle pareti lunghe strisce di carta propongono monotipi, nero su bianco, che richiamano stendardi estremo-orientali, di preghiera e di lutto, e lati di totem, dalla misteriosa, arcaica sacralità.

L'invito al silenzio viene ribadito.

La Bibbia insegna che il silenzio è la voce di Dio. Preesistente alla creazione, esso tornerà alla fine dei secoli.   Il silenzio ci consente l'ascolto di voci sommerse: anche di quelle che giungono dal profondo di noi stessi. In questa mostra ci conduce, tra l'altro, all'ascolto dei dialoghi tra Fausta Dossi e Sara Montani, oltre che delle loro dissonanti consonanze e  consonanti dissonanze.

Vengono esposte opere dell'una e dell'altra,  e fogli eseguiti a quattro mani. Alcuni presentano immagini pressoché speculari (talora derivanti da una lastra spezzata a metà, lavorata dalle due artiste l'una indipendentemente dall'altra, e tuttavia con sorprendenti continuità di discorso; talaltra una medesima matrice è stata trattata sui due lati, dalle due artiste, l'una dopo l'altra).

Il confronto diviene in questi casi diretto e ci consente di cogliere palesi somiglianze e specificità individuali. Fausta Dossi mostra maggior propensione per la gestualità: compaiono spesso solchi e raggiere, mentre Sara Montani rivela il suo interesse per la matericità, per gli effetti pittorici, non di secondo momento rispetto alla potenza del segno.   Se l'una quindi predilige contrasti accentuati, una dialettica esplicita e decisa di bianco e di nero, l'atra mostra di apprezzare modulazioni intermedie, con varie granulosità, più o meno fitte, o sottili, o estese, o intense di "colore".

Nelle aree incise da entrambe le artiste compaiono zone di bianco puro, semanticamente differenziate.

In Fausta Dossi presentano caratteristiche di lacerazioni, strappi o ferite che siano (ma a volte sono solo squarci di luce): per Sara Montani sono piuttosto delle soglie. Le sue forme d'insieme non di raro suggeriscono l'idea di un edificio, di una "casa" (anche le "scatole nere" divengono "case dei trapassati", cioè necropoli d'immagini); così le sue macchie bianche richiamano l'idea di un passaggio: qualcuno può affacciarsi, osservarci, inviarci messaggi.

La bidirezionalità di percorso attraverso una porta c'invita a riflettere sulla possibilità di comunicazione tra dimensioni diverse, seppur non opposte: luogo di passaggio tra conosciuto e incognito, frontiera del mistero e del sacro, la porta costituisce anche un invito a procedere "oltre".

In alcuni fogli di Sara Montani compare anche una serie di "finestre" rettangolari in cui si affacciano… piccole, raffinate incisioni di Fausta Dossi, riproposte anche in un libro d'artista.

E' un'altra forma d'integrazione, ancor più che dialogo, tra le due amiche.

[...] Il dialogo tra generazioni da cui ha tratto vita questa mostra si rivela esteso alle generazioni che ci hanno preceduto, nel dovuto silenzio, ma all'insegna del sorriso.

Per Hermann Hesse "ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell'uomo a prendere sul serio la propria persona".

Se ciascuno di noi desiste dal considerarsi il centro dell'universo per vedersi piuttosto come una goccia d'acqua nella corrente d'un grande fiume, si  sarà  tutti disposti a sorridere anche della propria transitorietà.

Sorprendentemente, le barriere che costruiscono il nostro isolamento scompariranno, e ci troveremo inseriti in una continuità sottratta alla gabbia del tempo. "Lo spazio trapassa nel tempo come il corpo nell'anima" asseriva Novalis.

Respirando in silenzio, e sorridendo, possiamo riprendere rincuorati il nostro cammino.

Pier Luigi Senna